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Richard Werner è uno molto tosto e anche molto radicale nelle sue tesi, per esempio è parte del movimento "Positive Money" in Inghilterra ora, uno dei proponenti della creazione di moneta da parte dello stato invece che da parte delle banche.
Due anni fa Werner ha scritto anche un rapporto molto originale in cui spiega che la soluzione a tutta la crisi del debito dell'eurozona è semplicemente far finanzire i deficit da parte delle banche di ciascun paese ad un costo concordato molto basso tipo l'1.5%. Non occorre altro, basta solo che le banche abbiano accesso a fondi all'1% per cui guadagnino qualcosina e hai risolto il problema del debito pubblico per ora. Lo stato di fatto garantisce Unicredit, Banca Intesa e Banco Popolare, quindi per esempio il governo avesse un deficit di 60 miliardi l'anno, basta che si faccia prestare i soldi da loro all'1.5%, senza BTP, un semplice prestito. Come fare un mutuo a 5 anni all'1.5% per lo stato. Tanto le banche le tiene su lo stato alla fine. Sarebbe un modo elegante per l'Italia per aggirare tutti gli ostacoli legali e i trattati e finirla con la storia dei BTP che costano il 5% l'anno e la "spread"...
Ma in realtà siamo già su questa strada perchè in Europa oggi se conti tutti gli acquisti di titoli di stato da parte di banche centrali l'una con l'altra e quelli da parte di banche locali o estere QUASI IL 60% DEI TITOLI DI STATO SONO IN MANO A BANCHE.
Che i titolo di stato siano necessari alle vecchiette e i risparmiatori per poter difendere il loro povero risparmio è un mito. Se sottrai quanti titoli di stato hanno le banche e le banche centrali e poi anche quanti hanno le banche estere i risparmiatori di un paese hanno in media solo un 30% dei titoli di stato in Europa.
Tutto il resto è un gioco di passività e attività tra banche centrali e banche in cui ogni stato ha bonds di un altro e da soldi alle sue banche che poi comprano titoli di stato di altri stati ...
è un intreccio di scatole cinesi in cui alla fine ognuno ha il debito di qualcun altro.
G.Z.
fonte: Cobraf.com e Financial Times
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