La BCE salva le banche, non l’economia
Articolo di Alfonso Tuor – Corriere del Ticino
Il sistema finanziario assomiglia sempre più ad un tossicodipendente che ha continuamente bisogno di nuovi soldi per non incorrere in una grave crisi di astinenza. E a provvedere all’uopo sono, come sempre, le banche centrali. Ultima in ordine di tempo è stata la Banca centrale europea che lo scorso mese di dicembre ha prestato agli istituti di credito del Vecchio Continente poco meno di 500 miliardi di euro per tre anni al tasso dell’1%. La BCE si appresta ad effettuare una operazione simile il prossimo 28 febbraio, soddisfacendo in misura illimitata le richieste del sistema bancario che – stando ad alcune stime – dovrebbero superare l’astronomica cifra dei 1.000 miliardi di euro.
La prima operazione è stata giudicata un grande successo, poiché ha ridato fiato ai mercati azionari (il rialzo di gennaio delle Borse è stato il più consistente dal 2008) e ai titoli bancari che hanno recuperato parte del terreno perso nei mesi precedenti e poiché sono diminuiti i tassi di interesse dei Paesi europei in difficoltà (e anche i loro spread) ad eccezione di quelli di Grecia e Portogallo.
Neppure il timore di un fallimento della Grecia ha intaccato l’ottimismo dei mercati finanziari indotto dalla droga di questa enorme liquidità. Tutto sembrerebbe dunque andare per il meglio, ma nonostante ciò appare opportuno interrogarsi se queste iniezioni di liquidità permettano di rilanciare la crescita dei Paesi europei periferici e quindi di risolvere la crisi dell’euro.
Questa enorme fame di capitali conferma lo stato estremamente precario del sistema bancario europeo che (soprattutto nei Paesi in difficoltà) non riesce più a rifinanziarsi sul mercato emettendo obbligazioni.
Ora, grazie alla BCE, riescono ad approvvigionarsi di liquidità a basso costo senza più dover fare ricorso ai finanziamenti a breve termine sul sempre più ostile mercato interbancario.
Non sorprende che un quinto dei 500 miliardi erogati dalla BCE sia stato richiesto proprio dalle banche italiane, che li hanno poi in parte usati per acquistare titoli emessi dal Governo di Roma che consegneranno come pegno per ottenere nuovi prestiti dall’istituto di Francoforte alla fine di questo mese. In pratica si tratta di un enorme «carry trade» in cui le banche si indebitano all’1% per acquistare titoli che hanno rendimenti superiori e che permettono di ottenere un consistente utile. Secondo la Barclays, la diminuzione dei costi di raccolta dei capitali farà aumentare del 4% gli utili delle banche europee.
Tutto bene, quindi. Invece no, poiché sia il meccanismo messo in moto dalla BCE per erogare questi prestiti, sia gli investimenti delle banche esaltano il processo di balcanizzazione del sistema finanziario europeo. Il fatto che non esiste più un mercato unico è stato indirettamente confermato dalla decisione della BCE di risolvere la questione di quali titoli accettare come pegno demandandola alle vecchie banche centrali.
Per cui è la Banca d’Italia a decidere quali titoli presentati dalle banche accettare come collaterale e ad assumersi il rischio su questi titoli. Questo per quanto riguarda l’erogazione dei prestiti, altrettanto vale per gli investimenti delle banche che hanno privilegiato i titoli pubblici del loro Paese, mentre gli istituti di credito dei Paesi forti hanno continuato a vendere i titoli pubblici dei Paesi deboli. Tutto ciò conferma la sfiducia nella tenuta dell’euro.
Ma le banche europee non hanno solo un problema di liquidità, ma anche di solvibilità, come ha ricordato l’Autorità di sorveglianza europea che ha prescritto ad alcuni istituti di procedere a consistenti aumenti di capitale per complessivi 110 miliardi di euro.
Questi problemi di solvibilità inducono le banche a vendere attività e soprattutto a razionare i prestiti alle famiglie e alle imprese per evitare di dover chiedere nuovi capitali al mercato. Quindi l’enorme iniezione di liquidità operata dalla Banca centrale europea non allenta la stretta creditizia effettuata dalle banche. In altre parole, ha scarso o punto influsso sul rilancio della crescita economica già fortemente depressa dalle misure di austerità che sono state adottate dai diversi Paesi europei.
Per questo motivo la politica monetaria di Mario Draghi ha il fiato corto: l’uscita dalla crisi avverrà unicamente quando le economie dei Paesi deboli dell’Europa riprenderanno a crescere e a ridurre il loro svantaggio competitivo rispetto alla Germania.
La decisione di inondare il sistema finanziario di centinaia di miliardi è una ulteriore scelta della disperazione tesa ad evitare il pericolo di un collasso del sistema bancario e non un passo per risolvere una crisi che sta facendo sprofondare in una recessione sempre più grave numerosi Paesi europei, facendo lievitare la disoccupazione e aumentando il numero delle persone che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese.
C’è quindi da chiedersi se la ripetizione dei salvataggi del sistema bancario sia la strada che permetterà l’uscita dalla crisi oppure – come è legittimo temere – sia solo tesa a guadagnare un po’ di tempo.
fonte: Corriere del Ticino
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