Né privatizzatori né tagliatori di spesa. Allora, ristrutturazione straordinaria del debito
di Oscar Giannino
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Il peggio deve ancora  venire”. Così si è espresso lo scorso 22  marzo, parlando dell’eurocrisi, non proprio l’ultimo degli sprovveduti.  E’ infati l’opinione di Willem Buiter, chief economist di Citigroup. Ma  soprattutto economista, visto che per anni ha servito Bank of England  nel suo Monetary Commitee,  e non proprio un banchiere d’assalto, visto  che pochi mesi prima di assumere l’incarico in Citi a fine 2009 nel suo  blog l’aveva descritto come “un conglomerato dedito alle peggiori  pratiche lungo l’intero spettro dell’intermediazione finaziaria”. Perché  Buiter ha questa opinione, mentre gli spread sono scesi di centiniaia  di punti rispetto al picco della crisi, tre mesi fa? Perché stiamo  tirando il fiato illudendoci di esser tornati a guardar le stelle, ma in  realtà non stiamo traendo la giusta lezione dalla crisi greca.
Penso che Buiter abbia ragione. E aggiungo: la lezione greca dovrebbe  valere proprio per i Paesi non tripla A, ad altissimo debito, bassa  crescita, altissima spesa pubblica e tasse. In altre parole: 
de te Ausonia loquitur.  Sono due, le considerazioni essenziali di uno scenario che non va  considerato pessimista, ma al contrario prettamente realista. La prima è  che risulta evidente proprio in queste settimane post controlled  default greco, che le tensioni di finanza pubblica degli euromembri  restano forti. Non è escluso che Atene non ce la faccia comunque e abbia  bisogno di nuovi aiuti. Si è aggiunta la nuova crisi spagnola, troppo  lontana dagli obiettivi di rientro dichiarati, e a serio rischio di  diventare assai presto a propria volta un 
Trojka country. Poi  il Portogallo. L’Irlanda. Persino l’Olanda, alle prese con tagli assai  superiori alle sue attese, se vuole stare negli obiettivi del fiscal  compact.
La seconda è quella strettamente collegata al default controllato  greco. Non è saltata nessuna banca né alcun hedge fund. Non c’è stato  alcun effetto contagio. Anzi, si è diffuso un eccessivo ottimismo  malgrado 160 miliardi di haircut ai detentori di titoli pubblici greci,  in grazioso cambio di circa 60 miliardi di carta a bassissimo rendimento  e a lunghissima scadenza.
Se però questo effetto si è prodotto, tanto varrebbe approfittarne.  
Degli oltre 500 miliardi di eurotitoli pubblici in scadenza per Paesi  non tripla A nei tre trimestri residui del 2012, oltre 300 miliardi è  costituita da titoli italiani. Il 50% dei quasi due trilioni di euro di  debito pubblico italiano va in scadenza nei prossimi due anni. Ora è  vero che negli ultimi tre mesi il rendimento del  Btp decennale è sceso di 250 punti base sino a sotto la soglia del 5%, prima di risalire ora  verso quota 320. E che al Tesoro, la direzione preposta al debito  pubblico guidata da Maria Cannata sta esaminando tutte le possibili  strategie per tornare ad allungare la duration del nostro debito  pubblico senza chiamare i bondholders ad alcuna perdita di valore.
Tuttavia, per l’Italia sarebbe il caso di fare di più. La penso in  questo come Georges Ugeux, CEO di Galileo Global Advisors, che ne ha  scritto il 25 marzo sull’Huffington Post. L’Italia  potrebbe – meglio:  dovrebbe  – pensare a una vera e propria ristrutturazione straordinaria  del proprio debito pubblico. Certo, con un haircut assai inferiore al  quasi 70% inflitto ai bondholder greci. Ma comunque di una notevole  consistenza.
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