martedì 29 maggio 2012

in crisi famiglie italiane e orafi

 Cosa c’è dietro al boom delle esportazioni di lingotti d’oro dall’Italia alla Svizzera? E come mai l’Italia nel 2011 è diventato il terzo mercato produttore mondiale di “oro riciclato”?  Da un lato il florilegio dei “compro-oro”, negozi non regolamentati spesso nelle mani della criminalità organizzata. Dall’altro c’è la crisi dei distretti orafi, che costringe le banche italiane a rivendere al di là delle Alpi i lingotti che i gioiellieri non riescono a trasformare.
Gli italiani vendono i gioielli di famiglia, la Svizzera compra e ringrazia. Effetto recessione: nel 2011 l’Italia si è piazzata, con 116,5 tonnellate, al terzo posto nel mondo dietro alla Cina come produttore di oro riciclato (vendita da parte di singoli di oro usato e scarti di lavorazione). 
I dati di Banca Etruria, istituto di credito che rappresenta un “hub” nazionale per la compravendita di oro, evidenziano la debacle dei distretti orafi come Vicenza, Arezzo e Valenza Po: nel 2002 in Italia si producevano 412 tonnellate di gioielleria, nel 2001 solo 93,8, rispetto peraltro alle 116 tonnellate del 2010 (-20%). Le componenti della domanda del metallo pregiato sono tre: gioielleria, uso industriale (come protesi dentistiche) e oro da investimento. Se la seconda è marginale, circa il 6-7% del totale, la prima copre il 50% della domanda, ma è in discesa, mentre sale la terza componente, oggi al 40% circa. Ed è quest’ultima a incidere sulle esportazioni al di là delle Alpi. Ad esempio, nel 2010 Banca Etruria ha venduto 300 kg di oro da investimento, nel 2011 1,7 tonnellate.

Numeri che rappresentano meglio di un trattato di sociologia le difficoltà in cui versano tante famiglie italiane. Dietro al boom delle esportazioni in Svizzera, infatti, ci sono due fenomeni: da un lato l’esplosione dei “compro oro”, e dall’altro la crisi dei distretti orafi italiani, che a sua volta determina la rivendita – da parte delle banche italiane – dei lingotti agli istituti di credito elvetici da cui li avevano acquistati in precedenza. Se quest’ultimo aspetto è noto soltanto agli operatori del settore, il primo è sotto gli occhi di tutti, basta farsi un giro in città.
La scorsa settimana l’associazione consumerista Adoc ha pubblicato i risultati di un’indagine secondo cui, nell’ultimo anno, i negozi “compro oro” sono cresciuti del 15%, con un giro d’affari di 2 miliardi di euro. In un anno i negozi sul territorio nazionale sono passati da 20 a 30mila». Un’impennata trainata più dalla disperazione di molti che dalle quotazioni del metallo giallo, destinata a durare ancora tre anni al massimo, un po’ per le nuove aperture un po’ perché, ammette Zironi, «i clienti stanno iniziando a raschiare il fondo del barile».
Affari letteralmente d’oro, sui quali la criminalità organizzata ha messo le mani da tempo. Per questo, lo scorso novembre, Aira (Associazione nazionale responsabili antiriciclaggio) e Anopo hanno organizzato un convegno per sensibilizzare le istituzioni, Bankitalia in primis, sull’urgenza di rendere obbligatoria l’iscrizione a un albo, oltre a regole più stringenti in termini di tracciabilità del denaro e antiriciclaggio. Un esempio? Nonostante il pagamento in contanti oltre i mille euro sia vietato a norma di legge, gli esercizi che pagano in nero, senza rilasciare lo scontrino sono la maggior parte. Altro esempio: soltanto i compro oro autorizzati da via Nazionale, in teoria, possono acquistare monete d’oro. Un altro paletto completamente disatteso. Guadagnando cifre che variano dal prezzo corretto di 3-4 euro al grammo e salgono fino a 8-10 euro, a seconda della purezza dei preziosi (18 o 24 carati).
La legge 7 del 2000 – che distingue la compravendita di oggetti in oro con e senza trasformazione, in quest’ultimo caso, in teoria, è necessaria un autorizzazione della Banca d’Italia – e in particolare il quarto comma, ha di fatto sancito un “liberi tutti”, escludendo, tra gli altri, dai requisiti di onorabilità «gli operatori che acquistano oro al fine di destinarlo alla propria lavorazione industriale o artigianale o di affidarlo, esclusivamente in conto lavorazione, ad un titolare del marchio di identificazione di cui al decreto legislativo 22 maggio 1999, n. 251».

Palazzo Koch, però, continua a tenere la testa sotto la sabbia. Due anni fa, esattamente il 28 maggio 2010 l’istituto guidato da Ignazio Visco ha fornito alcuni chiarimenti sull’interpretazione della norma, stabilendo che i compro oro non sono autorizzati a trattare oro fino, ad uso industriale o semilavorato. Ergo, basta mettersi d’accordo con un intermediario che fisicamente si reca in una fonderia per trasformare fedi, catenine e orecchini in lingotti – al prezzo di 50 cent a grammo – e il gioco è fatto. Tanto che, dei 28mila, i compro oro autorizzati da Bankitalia sono soltanto 346.


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